Leonard Cohen, il poeta antidivo scala la hit

Ci saranno migliaia di persone in piazza San Marco, stasera, ad attendere l’ometto col Borsalino calato in testa, l’ebreo errante, il romanziere diventato cantautore. Leonard Cohen insomma, insieme a Dylan il più grande poeta della canzone, porta a Venezia i suoi brani culto (da Suzanne - poi ripresa da De André - a Bird On a Wire), sussurrati con quella voce calda che sbuca dai sotterranei dell’Io. Ha 75 anni (sempre giovane per virtù di poesia) e da sempre evita quel successo che puntualmente va a stanarlo, turbando il suo modo segreto di cantare la verità vivendo nel dubbio. Il successo lo rincorre; la melanconica That’s No Way to Say Goodbye è stata colonna sonora dello spot della Bmw, ma soprattutto è bastato che Alexandra Burke vincesse l’X Factor inglese con la meravigliosa preghiera coheniana Hallelujah, perché il brano battesse un record entrando nelle hit parade con tre versioni diverse. Quella della Burke, quella di Jeff Buckley e quella dello stesso Cohen. Gratificato? Contento? Per nulla. Lui non è un canzonettaro e si è subito lamentato: «È una bella canzone, ma la cantano in troppi, basta con le cover o i miei fan si stancheranno di ascoltarla». Leonard Cohen è fatto così, romanziere passato alla canzone folk, intreccio di contraddizioni con un retroterra che dalla Bibbia arriva ai beatnik, uomo che ora parla alle coscienze dal buio dell’anima, ora racconta storie da «domenica mattina a casa con il sole». Non è tipo da autocelebrazioni, piuttosto da inquietudini, «sempre alla ricerca di una prova da cui risorgere come uomo vero». Per questo qualche anno fa s’è chiuso per sei anni in un monastero Zen, adagiato sul cocuzzolo di una montagna vicino a Los Angeles, «dove ho raggiunto la pace dello spirito ma ho ripreso anche a bere come una spugna. Cognac, whisky, vino rosso, al quale tuttavia il mio maestro Seasaki Roshi, un monaco di 94 anni, bevitore professionale come me, preferiva il sakè». Intellettuale che canta la disperazione ma anche l’ironia e il ghigno beffardo, appena uscito dal monastero dichiara: «Non è che mi sia mai convertito ad alcuna religione, sono nato ebreo e tale morirò. Lo Zen è ricerca delle cariche che muovono l’attività umana». Ma il suo pubblico lo ama per le cose che dice cantando (o non cantando) d’amore, di sesso, di guerra, depressione, politica, con il disincanto e il distacco poetico di chi sembra aver capito il segreto della vita, ovvero «che non ci sono segreti». Cohen l’ha sperimentato sulla sua pelle in una vita noiosamente avventurosa, nella frenesia della scrittura («Vorrei dire tutto ciò che c’è da dire in una sola frase. Odio ciò che può succedere tra l’inizio e la fine di una frase», scrive nel romanzo Il giorno preferito), nella fuga dal Canada, nella continua ricerca del trascendente, negli incontri con i folksinger del Greenwich Village newyorkese, nel primo approccio con Dylan, quando Bob era l’idolo del popolo rock e Leonard aveva già 33 anni, quattro romanzi (tra cui Beautiful Loosers) e due raccolte di poesie alle spalle e cominciava a travolgere il mondo della musica con la struggente bellezza di Suzanne. Vecchio saggio o camaleontico istrione, Venezia lo attende per celebrare l’incontro tra cultura europea e America on the road. Lui sa come affrontare il pubblico; come partire da Dance Me to the End of Love e trasformare via via la serata in messa pagana, in sabba, in festa, persino in rock show dove non si sa mai se l’arte prevale sulla vita reale o viceversa. Antico e attuale, tradizionale e moderno, comunque e sempre ispirato nel dispensare piccole verità e grandi dubbi (o viceversa)come quando scrive: «Ho ricevuto il titolo di poeta e forse lo sono stato per un po’/Anche il titolo di cantante mi è stato gentilmente attribuito/ anche se a stento ero incapace di intonare un motivo/Per molti anni sono stato considerato un monaco/ mi rasavo il cranio e indossavo lunghe vesti/odiavo tutti ma fingevo di essere generoso e nessuno mi ha mai smascherato».

di Antonio Lodetti

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