TORINO
«Ma che c... ti credi di fare?». No, proprio non te lo aspetti. Ti sei stravaccato in poltrona per ascoltare i brani di «American Life», l’ultimo album di Madonna. Ma il ringhio dell’ex ragazza di Bay City - al quarto posto nella classifica degli artisti con il più alto numero di dischi venduti nella storia della musica - ti colpisce nello stomaco. Lei, Madonna, non si rassegna al fatto che tu vuoi privarla della sua miniera d’oro e, per contrastare i furti via internet, ti ripaga della stessa moneta.
Ha inondato le reti peer-to-peer di musiche apparentemente tratte dal suo cd, ma in realtà di insulti diretti contro chi vorrebbe farla franca con la sua musica consumata gratis. Uno a zero nella guerra con gli hacker per la donna che ha venduto più di 420 milioni di copie? Macché. Lo sfogo a suon di parolacce è destinato a diventare una canzone rimaneggiata dai ladroni di files e distribuita senza autorizzazione da parte della cantante. E avrà pure una straordinaria affermazione. Questo estremo atto di furto digitale accadeva qualche anno fa e non era una beffa solitaria, il gesto eversivo contro lo strapotere mercantile di Madonna. Era l’arrembaggio di corsari dell’universo virtuale che sventolavano una dissacrante bandiera politico-culturale-esistenziale: «Pirata è bello».
A raccontarci la storia della pirateria e a sostenere che è destinata - in tanti campi: informatico, dell’informazione, dei libri, dell’arte, dei videogame - a essere vincente, è Matt Mason in «Punk capitalismo. Come e perché la pirateria crea innovazione» (Feltrinelli). Saggista che di ladrocini se ne intende - ha mosso i primi passi lavorando come dj in una radio pirata londinese - ha dato alle stampe la nuova Bibbia per manager e uomini d’affari, premiata da «BusinessWeek» e tradotta in dieci Paesi. Addio, dunque, alle obsolete leggi sul copyright, è la tesi di Mason. Bene lo sapevano i grandi precursori di ladrocini come Andy Warhol, che all’arte seriale e in copia aveva eretto un monumento nella sua Factory. Oppure come Richard Hell, comandante della punk rock band «The Voidoids», che, a New York, tra gli anni 70 e 80, dette il via al «do it yourself», unito al principio che l’assalto filibustiere alle opere rimixate era il giusto marchio del successo.
Tutte le volte che regolamentazioni e pastoie soffocano l’economia arriva in sostegno la pirateria. E così, se il mondo della musica e dello spettacolo è stanco e fiacco, si consolida la filosofia del prendi e scappa del rap o di Mtv. Perché la pirateria non è solo prodotto artistico, ma è il business del nostro tempo (già nel XIX secolo i Padri fondatori negli States ignorarono i brevetti e fecero man bassa delle invenzioni europee). Un altro esempio? Occhio ai nuovi misteriosi marchingegni che gli ingegneri dell’università di Bath, in Gran Bretagna, sperimentano da qualche anno. Sono all’opera con la stampante tridimensionale già usata da aziende come Adidas, Timberland, Bmw e Sony. A breve i ragazzini indosseranno All Star di produzione propria piratescamente confezionate. E il diritto di proprietà? Va a farsi benedire. Abolito non dall’assalto al Palazzo d’inverno, ma dal fai da te e dal copia e incolla birbante.
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