L’arte di scrivere canzoni: Bob Dylan in pillole

Qui sotto un collage di pensieri sparsi di Bob Dylan raccolti dal cantautore e critico musicale statunitense Paul Zollo in un’intervista del 1991 contenuta nella raccolta Songwriters.

I have made shoes for everyone,
even you, while I still go barefoot
Bob Dylan

«Songwriting? Che ne so io di songwriting?», mi chiede Bob Dylan, poi scoppia a ridere. Porta un paio di jeans, una canotta bianca, beve caffè da un bicchiere di vetro. «Nel bicchiere di vetro è più buono», mi dice con un sorrisone. La sua chitarra acustica di legno chiaro è appoggiata su un divano accanto a dove siamo seduti. La chitarra di Bob Dylan. La sua influenza è talmente enorme che tutto ciò che lo circonda si carica di significato: I mocassini di Bob Dylan. La giacca di Bob Dylan.

Pete Seeger una volta ha detto: «Tutti i songwriter sono anelli di una catena», eppure in questo arco evolutivo sono pochissimi gli artisti che hanno lasciato un’influenza profonda come quella di Bob Dylan. È difficile immaginarsi l’arte di scrivere canzoni così come la conosciamo prescindendo da lui. Nell’intervista ripete che «l’avrebbe fatto qualcun altro», ma in verità è stato lui l’istigatore, quello che sapeva che le canzoni potevano fare di più, che potevano sobbarcarsi un compito più importante. Sapeva che la forma canzone poteva contenere una ricchezza lirica e un significato che andassero molto oltre il raggio d’azione delle canzonette pop, che le canzoni potevano avere la stessa bellezza, la stessa forza della più grande poesia, e che per il fatto di essere scritte con un loro ritmo e in rima potevano parlare alle nostre anime. Partito dai modelli dei suoi predecessori, il talking blues imparato dai pezzi di Pete Seeger e Woody Guthrie, Dylan scartò presto le vecchie forme per modellarne di nuove. Infranse tutte le regole del songwriting senza abbandonare il mestiere e la cura necessari per creare canzoni che durano. Alla poesia folk di Woody Guthrie e Hank Williams aggiunse la bellezza della lingua di Shakespeare, Byron, Dylan Thomas e l’apertura e la sperimentazione beat di Ginsberg, Kerouac e Ferlinghetti. E mentre il mondo si stava appena abituando a questa nuova forma, portò la sua musica in una direzione ancora diversa, fondendola con l’elettricità del rock’n’roll. «È troppo e non è ancora abbastanza», dice riferendosi alla natura aperta di molte delle sue canzoni. «Sì, be’, ma cosa puoi dire di sapere veramente delle persone?», mi chiede Dylan, ed è una bella domanda. Quanto a lui, per anni è stato un mistero, «praticamente impenetrabile», ha detto Paul Simon, e questo mistero non è stato penetrato dalla mia intervista né da nessun’altra. Le risposte di Dylan contengono spesso più punti interrogativi delle mie domande e, un po’ come le sue canzoni, danno molto a cui pensare ma non rivelano necessariamente granché dell’uomo che le ha scritte. Visto di persona, come hanno notato alcuni, ha qualcosa di Charlie Chaplin. Il corpo è più piccolo e la testa più grande di quanto ci si aspetterebbe: dà l’idea di un ragazzino che indossa una maschera di Bob Dylan. Possiede una delle facce più singolari del mondo; laddove certe celebrità in carne e ossa possono risultare sorprendentemente normali e non fare colpo, trovarsi faccia a faccia con Dylan è forse ancora più impressionante di quanto ci si aspetti. A vedere quegli occhi, e quelnaso, appare chiaro che può trattarsi solo di lui. E davvero, non è il tipo di volto che ci si aspetta di poter incontrare nella vita di tutti i giorni. Anche se Van Morrison lo ha definito il più grande poeta del mondo, lui non si vede come un poeta. «I poeti finiscono affogati nei laghi», dice. Eppure ha scritto alcuni tra i versi più belli che il mondo abbia conosciuto, versi d’amore e di indignazione, di astrattezza e di chiarezza, di eternità e di contingenza. Pur messo di fronte all’evidenza di un catalogo di canzoni che potrebbe contenere intere carriere di una dozzina di ottimi songwriter, Dylan mi dice che non si considera un songwriter professionista. «Sono sempre stato più confessionale che professionale», dice.

«Dammi un punto da cui cominciare»

«Be’, vedi, le motivazioni che ci sono dietro una canzone non le puoi mai conoscere veramente. Di chiunque sia la canzone, non puoi mai capirne le motivazioni. È una bella cosa sapersi mettere da soli nella condizione giusta per poter accettare completamente tutta la roba inconscia che ti arriva dal lavorio interiore della mente. E poi sapersi interrompere nel punto in cui riesci ancora a controllarlo, a metterlo su carta… Edgar Allan Poe probabilmente lavorava così. Così fanno quelli che scrivono seriamente, e ce ne sono alcuni, ma gli altri il materiale ormai lo prendono perlopiù dalla televisione o da qualunque altro mezzo che coinvolga i loro sensi tutti insieme. Il tempo dei grandi romanzi è finito. Devi essere in grado di tirare fuori i pensieri dalla tua mente. Nella nostra mente ci sono due tipi di pensieri: ci sono i pensieri buoni e ci sono i pensieri cattivi. A tutti vengono in mente pensieri di entrambi i tipi. Certa gente ne ha un maggior numero di un tipo e meno dell’altro. Ad ogni modo, questi pensieri ti passano per il cervello. E devi saperli prendere e scartare, se vuoi essere un songwriter, uno che canta le canzoni. Devi sbarazzarti di tutto quell’ingombro. Dovresti essere capace di scartarli, quei pensieri, perché non significano niente e ti fanno solo perdere tempo. È importante che ti sbarazzi di quei pensieri in blocco. A quel punto puoi partire da una sorta di esame distaccato della situazione. Dentro di te c’è un punto da cui puoi guardare le cose senza fartene influenzare troppo. Un punto in cui puoi dare un tuo contributo su una questione invece che prendere e solo prendere prendere prendere prendere. Come ormai succede in un sacco di situazioni della vita. Prendere prendere prendere, è l’unica cosa che si fa. Io che cosa ci ricavo? Questa sindrome è cominciata nel Decennio del Me, neanche mi ricordo quando è stato… Ma ci stiamo ancora dentro. Proprio adesso».

«Le melodie che ho in testa sono molto, molto semplici, si basano soltanto sulla musica che abbiamo ascoltato tutti da piccoli. Quella, e pure la musica che c’era prima di quella, andando indietro nel tempo, ballate elisabettiane e chissà che altro… Per me, è roba vecchia. Roba vecchia. Non è qualcosa che, con quella dose minimale di talento che ho, se lo puoi chiamare così, con quella dose minima di talento… Secondo me uno che si presenta sulla scena adesso dovrebbe senz’altro capire, interpretare quello che c’è là fuori, se è interessato, seriamente, a essere il tipo di artista che rimarrà un artista anche quando raggiungerà l’età di Picasso. Allora ti conviene imparare un po’ di teoria della musica. Eh sì, ti conviene, se vuoi scrivere canzoni. Invece di limitarti a prendere un arpeggetto hillbilly, capito, e basare tutto su quello. Perfino la musica country oggi è più orchestrata di un tempo. È meglio se arrivi ad avere abbastanza dimestichezza con la musica da non dovertela portare sempre in testa, ma poterla mettere per iscritto. È questa la gente che… si dedica seriamente a questo mestiere. La gente che fa così. Non quegli altri che vogliono solo sputare fuori quello che hanno dentro e devono per forza uscirsene con una grande idea e vogliono proprio raccontarla al mondo intero, questa idea, certo, puoi scriverci una canzone, da sempre ci si può scrivere una canzone. Le canzoni le puoi usare per qualunque scopo, sai? Il mondo non ha bisogno di nuove canzoni. La gente ne ha abbastanza. Ne ha troppe. Di fatto, se da oggi in poi nessuno scrivesse più canzoni, il mondo non ne soffrirebbe. Non importa a nessuno. Ce n’è già a sufficienza di canzoni da ascoltare, per chi le vuole ascoltare. Si potrebbero spedire a ogni uomo, donna e bambino della terra cento dischi ciascuno senza mai spedirne due copie uguali. Ce n’è a sufficienza di canzoni. A meno che non spunti fuori qualcuno con un cuore puro e qualcosa da dire. Allora è tutta un’altra storia. Ma se parliamo di songwriting, qualsiasi idiota può scrivere una canzone. Se vedi che lo posso fare io, lo può fare qualunque idiota. Non è una cosa tanto difficile. Tutti sono in grado di scrivere una canzone, così come tutti hanno dentro di sé un grande romanzo».

«Sai chi è una brava? Madonna. Madonna è brava, ha talento, mette insieme tutta una serie di cose, il mestiere che fa ha imparato a farlo bene… Ed è un mestiere che ti prende anni e anni di vita, se lo vuoi imparare. Devi fare grossi sacrifici. Sacrifici. Se vuoi sfondare, devi fare grossi sacrifici. È sempre così. È sempre così».

«È dentro di me. È una cosa che è dentro di me, mettermi un giorno da parte e andare a fare il poeta. Ma richiede dedizione. Richiede molta dedizione. I poeti non guidano la macchina. I poeti non vanno al supermercato. I poeti non vanno a buttare la spazzatura. I poeti non partecipano al consiglio d’istituto della scuola dei figli. I poeti non vanno a picchettare l’Istituto Case Popolari o quello che è. I poeti non… i poeti nemmeno parlano al telefono. I poeti in generale con le persone non ci parlano proprio. I poeti passano molto tempo ad ascoltare e… e di solito sanno perché sono poeti! I poeti vivono in campagna. Si comportano da gentiluomini. E vivono secondo il loro codice di gentiluomini. E muoiono al verde. Oppure affogano nei laghi. I poeti di solito muoiono senza happy end. Prendi la vita di Keats. Prendi Jim Morrison, se vogliamo chiamarlo poeta. Prendi lui. Certo, c’è gente che crede si sia nascosto sulle Ande».

«Si fa sempre fatica ad accettare ciò che è più grande di noi. Guardandosi indietro, si potrebbero arrivare alla conclusione che non è stato prodotto da nessuno. Non ti fa bene se ti metti a pensare come sarà recepito il tuo lavoro un domani. Sul lungo periodo ti fa male ragionare così».

«Sul pianoforte preferisco i tasti neri. E gli accordi di diesis e bemolle suonano meglio pure sulla chitarra. A volte quando una canzone è in bemolle, mettiamo per esempio in si bemolle, quando la trasponi sulla chitarra potrebbe convenirti abbassarla in la. Ma… prima tu hai detto una cosa interessante. La tonalità cambia i riverberi del suono della canzone. Nel mio caso, in genere le canzoni suonano molto diverse. Suonano… Quando prendi una canzone in bemolle, composta sui tasti neri del piano, e la passi alla chitarra, quindi sei in la bemolle, non siamo in molti ad amare queste tonalità. Ma a me non dà fastidio. (Ride.) Non mi dà fastidio perché tanto la diteggiatura è sempre la stessa. Per cui queste canzoni, anche senza il piano, che è comunque il suono dominante nelle canzoni in bemolle – che motivo c’è di comporre in bemolle se non per avere un suono di piano dominante? – le canzoni suonate in questa tonalità per essere state composte al piano hanno un suono diverso. Più profondo. Sì. Hanno un suono più profondo. Sui tasti neri tutto suona più profondo. Rimane il fatto che non sono tonalità da chitarra. Le guitar band di solito non amano suonare in bemolle. Il che peraltro mi fa venire in mente un paio di canzoni che forse suonerebbero meglio in bemolle».

«Dovunque ti sei andato a cacciare, c’è sempre un modo per tirartene fuori. Se vuoi uscirne. Che già è stata dura entrarci, nel pezzo. Ma appena ci entri dentro la cosa da fare è capire che devi subito uscire. E se non te ne vai via liscio e rapido non ha senso restare là dentro. Ti impantanerai sempre di più. Potresti passare anni a scrivere sempre la stessa canzone, a raccontare la stessa storia, a fare la stessa identica cosa. Per cui una volta che ci sei dentro, che ci sei scivolato dentro anche solo per caso, la cosa da fare è uscirne. Insomma, il tuo impulso primario ti porta solo fino a un certo punto. Ma dopo magari pensi: vediamo un po’, questa è o non è una di quelle canzoni che da un momento all’altro cominciano a scorrere lisce come l’olio? E all’improvviso ti metti a pensare. E quando la mia mente comincia a pensare: “Adesso che succede? Ah, qui c’è una storia da raccontare”, e comincia a entrarci dentro, sono subito nei casini. E di solito sono casini grossi. Magari va a finire che ti perdi l’idea che avevi avuto. Ci sono un sacco di modi per uscire da questo meccanismo. Puoicostringerti a uscirne cambiando tonalità. Un modo è questo. Prendere tutto il pezzo e cambiare tonalità, tenendo la stessa melodia. Vedi se questo ti porta da qualche parte. Più spesso che no questa cosa ti rimette in moto. Una volta in moto, ovviamente devi stare attento a non prendere la rotta sbagliata, ma intanto così sei di nuovo in moto. Diretto da qualche parte. E se poi anche questo metodo fallisce, e resti di nuovo arenato, puoi sempre tornare da dove eri partito. Due volte non funziona. Funziona solo se lo fai una volta. Torni indietro da dove eri partito. Sì, perché qualunque cosa tu scriva in la, in sol sarà una canzone completamente nuova. Questo mentre la stai ancora scrivendo. In sol [alla chitarra] ci sono troppe corde suonate a vuoto per non influenzare la composizione, a meno che tu non stia suonando gli accordi col barré».

«L’avrebbe fatto qualcun altro in qualche altro modo. Vabbè, e allora? E allora? È tremendamente facile sviare la gente in una direzione piuttosto che in un’altra. Alla gente sarebbe andata meglio senza di me? Certo. Avrebbero trovato qualcun altro. Magari altri avrebbero trovato altri e sarebbero stati influenzati da altri ancora».

«Sai, quando fai il musicista ti capita di girare il mondo. Non ti affacci ogni giorno dalla stessa finestra. Non percorri sempre la solita strada. Per cui devi abituarti a osservare qualunque cosa. Ma nella maggior parte dei casi la realtà ti colpisce, non serve nemmeno che la osservi. Ti colpisce. Come la “ferrovia gialla”, magari era un giorno di luce accecante e il sole batteva così forte sui binari in qualche luogo che mi è rimasto impresso. Non sono immagini escogitate a tavolino. Sono immagini che stanno lì e prima o poi escono fuori. Sai, se sono là dentro prima o poi devono uscire fuori».

«Slow Trainè una canzone per cui si potrebbe scrivere una canzone per ogni verso della canzone. Veramente, lo si potrebbe fare. Qesta non è che sia una cosa buona. In fondo no. Alla lunga magari la canzone avrebbe retto meglio se davvero avessi fatto così, se avessi preso ogni verso per farci una canzone. Se qualcuno avesse avuto la forza di volontà. Ma quel verso, anche lì, è un verso intellettuale. È un verso, «Well, the enemy I see wears a cloak of decency», che potrebbe essere falso. Potrebbe. Mentre invece «Standing under your yellow railroad», questo verso proprio non potrebbe. Sai, per Woody Guthrie la radio era sacra. E quando sentiva qualcosa di falso, lo sentiva alla radio che per lui era comunque sacra. Le sue canzoni però non erano false. Ora noi sappiamo che la radio non è una cosa sacra, ma per lui lo era. E molti erano influenzati da questo atteggiamento, quando io ero agli esordi. Insomma, si sa, tutte le canzoni della hit parade in fondo sono un mucchio di schifezze. Ma all’inizio, quando nessuno lo sapeva, questa faccenda della radio mi ha influenzato. Perché non lo sapeva nessuno. Hai presente: «If I give my heart to you, will you handle it with care?» [Se ti dono il mio cuore, lo tratterai con dolcezza?]. O «I’m getting sentimental over you» [Mi stai facendo diventare romantico]. A chi gliene frega un cazzo? È un concetto che si può esprimere in maniera pomposa e chi canta questa roba magari riesce a rifilarla al pubblico, ma siamo seri, dipende dalla sua bravura di cantante, non dal fatto che è una grande canzone. Anche Woody oltre a scrivere canzoni le cantava. Per questo molti di noi ci sono cascati. Ma di fatto in radio non c’è mai niente di buono. Non succede mai. Poi ovviamente sono arrivati i Beatles e praticamente hanno preso tutti per la gola. O eri per loro o eri contro di loro. Eri per loro o ti univi a loro, o quello che è. Allora tutti dicevano: “Be’, le canzonette non sono poi così male”, e a quel punto tutti volevanoandare in radio. Prima di allora la radio non contava nulla. I miei primi dischi non erano mai passati in radio. Non se ne parlava proprio! I dischi folk non passavano in radio. Non li sentivi mai alla radio e a nessuno importava che li passassero in radio. Proseguendo nella vicenda, anche dopo che sono venuti fuori i Beatles e tutti gli altri gruppi dall’Inghilterra, il rock’n’roll è rimasto una cosa americana. La musica folk no. Ma il rock’n’roll sì, è una cosa americana, anche se tutta cambiata e deformata. Gli inglesi ce l’hanno rispedita indietro, no? E hanno fatto in modo che ancora una volta ottenesse il rispetto di tutti. Così alla fine tutti volevano andare in radio. Adesso nessuno sa più neanche cosa sia la radio. Se ne parli con qualcuno non ti dice mai che gli piace. Non la ascolta nessuno. Ma d’altro canto la radio non è mai stata così importante. Però nessuno sa davvero come prenderla. Nessuno la può spegnere. No? E nessuno capisce più se in radio ci vuole andare o no. Magari vuole vendere un sacco di dischi, ma questa cosa c’è sempre stata. E invece per i cantanti folk avere delle hit non era mai stato importante… Oddìo, ho perso completamente il filo del discorso».

«È un altro modo di scrivere una canzone, certo. Parlare con qualcuno che non c’è. È il modo migliore. Il più vero. Dopodiché si tratta solo di vedere quanto è eroico il tuo discorso».

«Non devi per forza attraversare un periodo tormentato per scrivere una canzone, ma devi stare un po’ isolato dal resto del mondo. È per questo che molti, compreso me, scrivono canzoni nel momento in cui vengono respinti dalla società, da qualunque tipo di società. Perché così ne puoi scrivere dall’esterno. Qualcuno che non è mai stato fuori dalle cose può solo averne un’immagine vaga. Fuori dalla situazione in cui ti trovi. Ci sono tipi diversi di canzoni, ma si chiamano sempre canzoni. Ci sono tipi diversi di canzoni proprio come ci sono tipi diversi di persone, capito?»

«Per dire, un verso di Byron sarebbe una cosa semplice del tipo: «What is it you buy so dear / with your pain and with your fear?» [Cos’è che paghi a tanto caro prezzo / con il tuo dolore e il tuo ribrezzo?]. Ecco, questo è un verso di Byron, ma avrebbe potuto essere uno dei miei. Fino a un certo punto, forse agli anni Venti, la poesia era così. Così la si faceva. Era… semplice e facile da ricordare. E sempre ritmata. Aveva ritmo, che ci fosse o meno la musica».

«Scartare o tenere… mah, le canzoni le tieni se pensi che abbiano qualcosa di bello, se non lo pensi… puoi sempre darle a qualcun altro. Se hai canzoni che non farai, che proprio non ti piacciono… falle vedere a qualcun altro. Di nuovo, si riduce tutto a una questione di motivazioni. Perché fai quello che fai. Tutto qui. È un confronto con… la dea del sé. Dio del sé o dea del sé? Qualcuno mi ha detto che era una dea del sé. Mi hanno detto che è una dea a regnare sul sé. Gli dei maschi non si occupano di problemi così terreni. Solo delle dee… si abbasserebbero a tanto. Solo loro si inchinerebbero così a terra».

«Dunque, per me l’ambiente in cui uno scrive una canzone è di estrema importanza. L’ambiente deve tirarti fuori da dentro qualcosa che voleva uscire. È un discorso di contemplazione, di meditazione. Le emozioni allo stato puro non sono il mio forte. Perché vedi, io non scrivo bugie. È dimostrato: la maggior parte delle persone che dicono “ti amo” non lo pensano sul serio. L’hanno dimostrato dei dottori. Allora, l’amore genera molte canzoni. Moltissime, direi. Però ecco, io non voglio che le mie canzoni siano influenzate dall’amore. Così come non lo erano i pezzi di Chuck Berry o quelli di Woody Guthrie o di Hank Williams. Quelle di Hank Williams non sono mica canzoni d’amore. Le svilisci, quelle canzoni, se le chiami canzoni d’amore. Quelle sono canzoni venute dall’Albero della Vita. Non c’è amore sull’Albero della Vita. L’amore è sull’Albero della Conoscenza, l’Albero del Bene e del Male. Per cui nella musica pop ci sono molte canzoni d’amore. Ma a chi servono? A te no, a me nemmeno. L’amore lo puoi usare in molti modi che possono rivoltartisi contro e ferirti. Perché l’amore è un principio democratico. Una cosa da Greci. Un professore universitario mi ha detto che se leggi la storia della Grecia capisci tutto dell’America. Così nulla di quello che accade oggi ti confonderà più. Leggiti la storia dell’antica Grecia e di quando arrivano i Romani e non ci sarà più niente dell’America che ti metterà in difficoltà. Vedrai l’America per quello che è. Be’, ecco, magari ci sono un sacco di altri Paesi nel mondo a parte l’America… Due. Non te li puoi dimenticare».

«La mia mente l’ha sempre vista così. La musica. Come Paul Whiteman. Paul Whiteman crea un’atmosfera. Per me, quello crea un’atmosfera. I primi dischi di Bing Crosby. Creavano un’atmosfera, come quel suono di fiati un po’ spettrali alla Cab Calloway. I violini, quando le big band avevano un suono vero, senza lo sfarzo di Broadway. Da quando ha preso piede la fissa di Broadway tutto è diventato roba da lustrini e da Las Vegas. Ma non è sempre stato così. La musica creava un ambiente. Oggi non accade più. Come mai? Forse è la tecnologia che ha fatto fuori l’atmosfera e non ce n’è più bisogno. Perché abbiamo uno schermo che riteniamo tridimensionale. Che viene spacciato per tridimensionale. Che vorrebbe far credere di essere tridimensionale. Be’, sai, come nei vecchi film e in tutta quella roba che ha influenzato molti di noi che ci siamo cresciuti. (Raccoglie il flauto peruviano.) Come questa vecchia cosa qui, non è niente, solo una vecchia… cos’è?… Ascolta. (Suona una lenta melodia.) Ascolta questa canzone. (Suona ancora.) Ok. Questa è una canzone. Non ha parole. Perché le canzoni hanno bisogno di parole? Non ne hanno, infatti. Le canzoni non hanno bisogno di testi. No».

«La canzone è una cosa magica. Non si può costringerla in uno schema. Non è un puzzle. Non ci sono pezzi che si incastrano. L’immagine completa che ne viene fuori è qualcosa che nessuno ha mai visto prima. Ma sai come si dice, sia lodato Dio per i songwriters».

© minimum fax, tutti i diritti riservati Traduzione di Francesco Pacifico

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