La regina sfacciata

Per una ventitreenne negli anni Dieci, tutto il Novecento è vintage. I Settanta sono vintage. Gli Ottanta sono vintage. E anche un bel pezzetto dei Novanta. Di quel che ti sembra vintage puoi riusare gli abiti, il trucco, il nome (GaGa era la radio dei Queen) e persino il sound. Ma il messaggio, a così breve distanza cronologica, anche se siamo in un secolo diverso lo devi cambiare. Sicché se Cindy Lauper nel 1983 con “Girls Just Want To Have Fun” pregava il papà di smettere di chiamarla nel cuore della notte per chiederle che cosa aveva intenzione di combinare nella vita e che la lasciasse divertire; se Madonna tre anni dopo con “Papa don’t preach” confessava al genitore con cui viveva, adolescente e sola, di essere incinta e di volerlo tenere e allevare e intanto sfoggiava l’imperitura t-shirt “Italians Do It Better”, negli anni Dieci doveva pur arrivare il momento delle brave ragazze come Lady Gaga, che a papà scrivono canzoni d’amore. Che Gaga – “the next Madonna” ululano dal 2008 i media anglofoni, dieci milioni di copie vendute con il primo album “Fame” e duecentomila in due giorni per “The Fame Monster”, uscito alla fine del 2009 – appartenga alla categoria, risulta alla seconda delle mille interviste che ti tocca leggere su di lei, mentre in realtà vorresti solo guardarti i video pirata dei set europei del “Monster Ball Tour” partito da un paio di settimane (la data milanese di maggio è ancora oggetto di trattativa).
Perché le interviste con le popstar è da un pezzo che di musica non parlano più – e invece lei fa questa musica ipnotico-sexy che si chiama elettropop, che è come dire la musica 2.0, su cui sarebbe illuminante intervistarla – e da quando i fan si scambiano informazioni e pareri via mailblogforum sono diventati più esperti e scafati di qualsiasi critico pop (se non ci credete, vi convincerà Nick Hornby dopo un paio di capitoli del suo ultimo romanzo “Tutta un’altra musica”). Bastano due delle centinaia di interviste di Gaga per sentirsi già ripetere che, proprio come una brava ragazza italoamericana di New York, Lower East Side di Manhattan, ha cominciato a suonare il piano a quattro anni. Si chiamava ancora Stefani Joanne Angelina Germanotta, e andava a scuola dalle suore (al Convent of the Sacred Heart School, lo stesso di Nicky e Paris Hilton). A tredici aveva composto la sua prima ballata. E a venti, dopo aver lasciato casa, si comportava talmente bene che quando papà viene a sapere che Stefani si esibisce negli spogliarelli burlesque (burlesque è trendy, cubista è vintage) circondata da drag queen e chissà quali altri incroci underground, il cuore del genitore, già malandato, ha un ennesimo sussulto.
Certo quel cuore verace si era già agitato non poco anche la prima di molte volte in cui la piccina si era presentata alle nuove babysitter completamente nuda. E i battiti erano aumentati parecchio quando, rifiutando la camicia bianca uniforme della scuola, si era infilata una maglietta di Gap: “Inappropriata!” aveva tuonato l’insegnante. “Ma è la stessa della mia compagna di banco!” aveva risposto la collegiale e futura Lady Gaga. Protesta inutile: sebbene fosse ancora minorenne, una semplice maglietta faceva su di lei un effetto del tutto “diverso”. Per non parlare di quando si era beccata una citazione per “indecent exposure”, tipo oltraggio al pudore, mentre si faceva un giretto vicino al locale dei suoi spogliarelli burlesque: “Hot pants!” Per i pantaloncini! E quell’indecente del poliziotto mi ha pure caricata sulla bici!”.
Sicché si spiega la storia di “Speechless”, la canzone strappalacrime che ha dedicato al papà dal cuore ballerino, Joe Germanotta (ah, le origini italiane delle popstar Usa più vendute al mondo: perché nessuno ricorda mai questa tra le soddisfazioni degli emigrati d’antan?) e che ha commosso il mondo. Lei era sequestrata in questo tour – maledizione al successo improvviso e ai sogni e alla musica, ché poi bisogna sempre seguirli on the road – e non poteva mollare nemmeno per un giorno.
Se per quindici anni perciò poteva anche andare che l’imprenditore siculo-americano di impianti internet wireless con l’aorta dissestata rifiutasse l’intervento (“Accada quel che accada”, le ripeteva con accento palermitano), ora che usciva ed entrava dagli hotel di mezza America a centinaia di chilometri di distanza la sua figlioletta da due Grammy e tre Brit Awards non avrebbe retto a una tragedia annunciata intrappolata tra lurex e metacrilato sagomato: “Mio padre mi chiamava ogni giorno dopo aver bevuto un po’ e io non sapevo che cosa dire (“speechless”, appunto). Avevo solo paura: che l’avrei perso, che non ci sarei stata. Ho scritto questa canzone come una preghiera per lui, che si salvasse la vita. E volevo ricordare ai miei fan che ci vengono dati solo due esemplari di genitori, di tenerseli stretti”. Papà Joe si è poi fatto operare a cuore aperto, a dimostrazione che sono le brave ragazze ad andare dappertutto e in ispecie a farsi ascoltare dai genitori. E dai fan su Twitter qualche ora dopo l’intervento: “Speechless. In ospedale. Massaggiando i piedi di papà mentre è addormentato. E’ il mio eroe”.
Dicevamo che Lady Gaga si chiama in realtà Stefani Joanne Angelina. E le ragazze con tanti “first names” vengono solo da buone famiglie dove le nonne (o le star del cinema) hanno contato qualcosa. Se ne deduce che, oltre che una brava ragazza, la nostra è anche una ragazza. Non è precisazione da poco. La popstar-provocateuse che ha unito etero e GLBTQ (gay, lesbo, bisexual, transgender e queer) in un pubblico trasversale ai generi (sessuali) come solo David Bowie seppe fare, si è nutrita, all’alba del suo successo (siamo nel 2010, per “alba” intendiamo il 2008/2009), di un mito breve ma vincente, riassumibile nella domanda che ha rimbalzato su blog e fans forum per mesi: “Ma Lady Gaga è un uomo o no?”. No. Femmina è. E se a dimostrarlo non bastassero la carne bianca bianca e soffice soffice e un lato B con pieghetta che ha subito indenne i massacri di get fit cicconiano, taglia la testa al toro la velocità tutta femminile con cui il successo le ha cambiato la faccia.
Solo nel 2007, quando ancora si esibiva al festival musicale Lollapalooza, aveva profilo aquilino, quel bel prognatismo cavallino che ad alcuni maschi fa molto sangue, mascella à la Modigliani, capelli nero palermitano naturale. Tutte caratteristiche somatiche che amava nascondere a ogni costo, con ogni maschera, anche a forma di aragosta, tanto che un’altra delle leggende metropolitane su di lei è che chi fosse riuscito a fotografare il vero volto di Gaga non sarebbe sopravvissuto.
Oggi la ritroviamo arrotondata ai bordi, cesellata agli zigomi, sforbiciata al naso e anche un po’ sgonfiata da quel labbro inferiore pendulo che “Làsciatelo dire, tesoro, fa un po’ volgare”. E ha risolto anche il problema capelli. Brunetta no. Perché poi la scambi per Amy Winehouse. Bionda liscia similnaturale nemmeno. Perché se poi càpita che ti esibisci in uno sketch comico al “Saturday Night Live” con Madonna si deve capire chi è l’originale (a Gaga piace ricordare che con la popstar globale del Novecento ha in comune “solo un paio” di cosette: le origini italoamericane e la gavetta nei peggiori bar di New York). E allora bionda, Gaga, parruccata o ossigenata, purché gonfi quei capelli. Gonfi e finti.
Eppure ai fan piace anche perché è, e rimane nonostante tutto, di un bruttino inoperabile. Quel bruttino goloso, però, che ammicca al maschio alucce di pollo e alla femmina tutta maniglie dell’amore con la promessa che ciglia finte 3d, supergloss (il rosa è troppo pop, l’arancione troppo Ottanta, l’unico chic è il rosso “cabernet”), plastica, pizzi e paillette sempre mescolati con materiali “alti”, tipo borse Jimmy Choo, giacchini da cocktail Versace, qualsiasi pezzo a logo Lagerfeld, possono farti svoltare la serata e forse persino la vita (non proprio il vangelo secondo Michael Jackson, che pure pare sia uno dei suoi idoli di sempre): “Sii ciò che vuoi”, urla Gaga al suo pubblico, ma anche “You, motherfuckers!”.
Sei Unico, ok. Magari però fallo capire a tutti scrivendolo ancora più grande e spacciandoti per Eccezionale. Anche a costo di sommergere con zeppe leopardate, acconciatura “future Fifties” ed eccessivi accessori Dior, meriti già buoni per la Hall of Fame: a poco più di vent’anni, Lady Gaga scriveva canzoni per Fergie, Britney Spears e New Kids on the Block. Ha una voce di invidiabile estensione e suona il piano come una vera professionista. Ha già fatto del suo nome, con la “House of Gaga”, un logo per una factory che allude a quella celeberrima di Andy Warhol. E’ gestita dal padre e lì vengono realizzati i capi d’abbigliamento e le scenografie degli spettacoli. Vi si sperimentano nuovi suoni e nuovi strumenti musicali, come la key-tar che Lady Gaga ha fatto debuttare negli ultimi concerti. Una “brava ragazza” che dal palco urla “Sono una puttana libera”. Una gallina in guêpière che legge Rilke e che Obama dichiara di “avere il privilegio” di avere a cena. Swarovski originali e vetraccio preso a due e novantanove ai grandi magazzini: il perfetto mosaico di specchi in cui tutti i fan possono riconoscersi e sentirsi amati.
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