Il cinema ribelle europeo degli anni Novanta

Dal film di Danny Boyle al movimento “Dogma ’95″, passando per “L’odio”. Un voto di castità, in un mondo cinematografico terreno tanto tentacolare, durato il tempo di un amen, appena il capoclan (Von Trier) si gira dall’altra parte ( Dancer in the dark – 2000 – non rispetta il Dogma e vince la Palma d’Oro a Cannes)

Davide Turrini per “Liberazione
Uno spettro si aggirava per l’Europa anni ’90. La congegnata demolizione cinematografica del conformismo borghese: Trainspotting , L’odio , Festen , Idioti . Gli emuli di Luis Bunuel, Pier Paolo Pasolini e Marco Bellocchio si chiamavano Danny Boyle, Mathieu Kassovitz, Lars Von Trier, Thomas Vinterberg. Antidoti ad un veleno potentissimo: l’estetica a perdere degli anni ’80. Un vuoto assoluto d’ispirazione, difficile da abbattere, scuotere, intimorire. Eppure lo spettatore cinematografico “engagé”, quello che dal cinema si aspettava risposte, prese di posizione critiche, movimenti di macchina etici, si è ritrovato tra le mani oggetti curiosi, alcuni divenuti di culto, altri sterili oggetti caricaturali. Su tutti l’idea che il cinema anni ’90 potesse ribellarsi nei contenuti, come nella forma, nella poetica quanto nell’estetica.E se nel frattempo i riferimenti dell’America impegnata divennero Lynch, Cronenberg, Altman, Eastwood, la vecchia Europa sfornava strani gingilli di protesta, finiti alle cronache.

Partire da Trainspotting (1996) è d’obbligo. Sette settimane e mezzo di set, tre milioni e mezzo di sterline come budget, Trainspotting viene affidato alla coppia Danny Boyle-John Hodge. Il primo regista, il secondo sceneggiatore, entrambi all’opera seconda, dopo il pallido e dimenticabile Shallow grave (sempre con Ewan Mcgregor come protagonista). Tra La pazzia di Re Giorgio e Secreti e bugie , Channel 4 produce un possibile successo di pubblico, tanto che Polygram dalla Francia e soprattutto i fratelloni Weinstein della Miramax da oltreoceano fiutano l’affare. Trainspotting cinematografico è subito cinema esagerato, folleggiante, drogato e drogabile, ma assolutamente commerciale, nonostante la R, la peggiore etichetta della censura Usa, divieto d’ingresso in sala ai minori di diciassette anni: 16 milioni di dollari in Usa, 9 milioni di sterline in Gran Bretagna, quasi nove miliardi di vecchie lire in Italia. Boyle, e Hodge, vengono catapultati, male, senza un materasso ad attutirne la caduta, nell’olimpo della Hollywood che conta.
Se pensiamo ad orpelli divistici come The beach (2000), alla scontata ingenuità di un Millions (2004), a confronto Trainspotting è uno sberleffo morale di Carmelo Bene. La poetica di Danny Boyle non si può non leggere in prospettiva. La rappresentazione della merda che ne fa il regista di Manchester, dal testo di Welsh, si situa tra la tragicità pasoliniana di Salò e l’eventualità nazional-popolare dei Vanzina in Sognando la California , senza essere né l’uno, né l’altro.
La prima sequenza è quando Mark Renton (McGregor) dopo un violento attacco di diarrea, per recuperare una supposta di eroina finita in uno zozzo water di Edimburgo, si getta dentro alla tazza col corpo deformandone prospettiva e profondità. Poi tocca a Spud (Ewan Bremner) sventagliare altrettanta quantità di feci, scuotendo il lenzuolo che le raccoglie, addosso alla tenera famigliola della fidanzata riunita a colazione. Per Boyle il cinema è un luna-park esteriormente dark, ma interiormente tanto rasserenante. Mai un incubo polanskiano o uno schiaffo pasoliniano all’ipocrisia borghese, ma sempre un gioco a somma zero dove a tal quantità di ribellione sociale (ricordate la tirata iniziale in voce off: «Voi scegliete la vita, il lavoro, la famiglia, il telequiz, il colesterolo basso… io scelgo di non scegliere la vita») corrisponde una misera deformazione (grandangolo, sproporzione, allargamento/rimpicciolimento del soggetto ripreso) dell’immagine. Per questo presunto autore, e lo si vedrà come detto nei film a venire, il cui coronamento è il colonialismo cinematografico d’accatto Slumdog millionaire , sono mancati rigore e stile, ispirazione letteraria (se non c’era Welsh…) e cinematografica.
Nessun cinema rifondativo con Boyle e i suoi tossicomani d’Edimburgo. Semmai l’antesignano della ribellione europea anni ’90 è Mathieu Kassovitz, il cantore del disordine nelle banlieue prima che queste andassero a fuoco sul serio. L’odio è del 1995, film «dedicato a quei dispersi durante la fabbricazione». I perdigiorno di Kassovitz sono nordafricani, senegalesi, francesi con la tuta Nike in acrilico. Vagano per le periferie, maneggiano armi, vedono mucche in mezzo alle strade di Parigi. Graffiti, molotov, flic davvero stronzi, rappeur/casseur di grana grossa come il Vinz di Vincent Cassel. Kassovitz reintroduce il bianco e nero, lo scavalcamento di campo continuo e parecchi piani sequenza. Ma non è ancora una rivoluzione di stile, nonostante l’impegno profuso, nonostante il tema anticipatore, lungimirante, cattivissimo del melting pot teppista che si impossesserà qualche anno dopo della periferia della capitale francese. Senza dimenticare che Kassovitz dopo L’odio girerà un film rigidamente di genere come Assassin(s) (1997), interpreterà Nino ne Il favoloso mondo di Amelié (2001) e padre Fontana in Amen (2002) di Costa Gavras, poi finirà per diventare contestatore politico negli anni 2000 con cameo per i distruttivi De Kervern e Delepine in Louise Michel (2008) o inquieto ospite ad attaccare la versione ufficiale dell’11 settembre 2001 in diretta nazionale su France 2 (a detta di Costa-Gavras da noi interpellato di persona sul fatto: «Una figura di merda»).
E’ invece il “Dogma ’95″ a marchiare definitivamente la svolta etica del cinema ribelle anni ’90. A partire dall’imposizione di un decalogo, con tanto di certificazione iniziale per ogni film a firma in calce dei fondatori (i danesi Lars Von Trier, Thomas Vinterberg, Kristian Levring e Soren Kragh-Jacobsen). Un voto di castità, in un mondo cinematografico terreno tanto tentacolare, durato il tempo di un amen, appena il capoclan (Von Trier) si gira dall’altra parte ( Dancer in the dark – 2000 – non rispetta il Dogma e vince la Palma d’Oro a Cannes) e si stufa di non poter usare scenografie e oggetti di scena (articolo 1), di dover filmare solo con suono in presa diretta (art. 2) o luci artificiali (art. 4) e via di privazioni tecniche. Così il “Dogma ’95″ e i suoi dogmatici finiscono la loro corsa appena dopo averla iniziata. Prendete il film Dogma #1: Festen di Vintenberg (1998). Un celebre critico, autore di un altrettanto celebre dizionario, si chiedeva cosa sarebbe cambiato nel film se non fossero stati adottati pedissequamente i dettami del decalogo. Nulla. In più Festen , con al centro questa deflagrazione di legami familiari, apice drammaturgico nella confessione eclatante del protagonista, che accusa di pedofilia il padre durante la festa in famiglia per i suoi 60 anni, non fa un baffo che so, a I pugni in tasca di Bellocchio (o a qualsiasi film di Bellocchio). Altro che castità: lì i genitori conservatori e pedanti, zavorre psicologiche, dinosauri borghesi, finivano direttamente, senza troppo cincischiare, giù per il burrone.

http://sottoosservazione.wordpress.com/2010/07/04/il-cinema-ribelle-europeo-degli-anni-novanta/