Essere figli d’arte non è mai stato semplice. Essere poi figli di Francis Ford Coppola, il regista de “Il Padrino” e “Apocalypse Now”, opere che hanno rivoluzionato il modo di concepire il cinema, è compito ancora meno agevole. Ma Sofia Coppola, newyorkese figlia di Francis nata nel 1971, che ha deciso di seguire le orme paterne, sembra proprio non sentire il peso sulle spalle di avere un genitore così ingombrante. Dopo due opere assai diverse fra di loro come “Lost in Translation” (2003) e “Marie Antoinette” (2006), con la terza, “Somewhere” (vincitrice del Leone d‘oro al Festival di Venezia), ha assunto una fisonomia di artista davvero anomala nel panorama del cinema americano (quindi internazionale) contemporaneo. L’originalità di “Somewhere” segnala tre punti estetici (e soprattutto etici) di notevole interesse: Sofia Coppola si ispira al modello del cinema d’autore europeo; rappresenta lo specchio culturale del post-femminismo; è la più lucida interprete del processo di desocializzazione che ha investito l’Occidente a partire dagli anni Sessanta del XX secolo. Andiamo con ordine.
Già l’apertura del film è una limpida enunciazione dello stile a cui si richiama la regista. Un’auto sportiva di grossa cilindrata, nera, gira più volte su una strada circolare, ad alta velocità. La macchina da presa è ferma, non si muove mai. Vediamo sfrecciare il bolide una volta, due, tre, quattro. Poi l’auto si ferma. Non è successo nulla: il tempo cinematografico ha solo catturato il tempo reale. Quindi, come nel cinema di Michelangelo Antonioni, prolungato nel corso del tempo da Wim Wenders, sappiamo di assistere da subito ad una fenomenologica introspezione della realtà.
Posta con chiarezza la cifra stilistica “Somewhere” può partire. Protagonista del film è Johnny Marco, attore cinematografico americano di successo (ancora una sottolineatura autoriale, con il rimando al “cinema nel cinema”), un nichilista dei tempi postmoderni. Johnny non fa nulla. Trascorrere le giornate al sole della bella piscina dell’hotel Chateau Marmont, lussuosa residenza di West Hollywood, in California, meta dorata del mondo della spettacolo. Tra una nuotata e l’altra, una festa e l’altra, si ubriaca, amoreggia senza impegno, non pensa a nulla, nemmeno al tempo che passa. Attorno a Johnny scivola un’umanità perlopiù sconosciuta, composta da aspiranti attori e attrici in cerca di successo, ai quali basta anche soltanto un saluto confidenziale da parte della celebrità. E lui ricambia, educato, neanche troppo infastidito. La camera da letto di Johnny è un andirivieni di ballerine, attricette, amiche, conoscenti o appena conosciute. Sono talmente tante che la memoria non riesce a ricordare i lori nomi, confondendoli, e talvolta Johnny, sfinito dall’alcol, si addormenta su di loro. Anche il lavoro è qualcosa di distante da Johnny, attore privo di vocazione e interessi artistici. L’attore risponde a comando, docilmente, alle richieste di chi provvede al successo della sua carriera: un’intervista, un servizio fotografico, una conferenza stampa, una viaggio a Milano per partecipare alla serata di consegna dei Telegatti (con la fugace apparizione del corpo seducente e abbondante di Valeria Marini nella parte di se stessa). Johnny ha anche una moglie, dalla quale vive separato, e una figlia adolescente, Cloe.
D’un tratto Cloe si materializza a riempire la sua vita. Il padre scopre che la bambina pattina benissimo, è piena di interessi, sensibile, intelligente e cucina con pazienza e perizia. Cloe è cresciuta troppo presto: i due genitori hanno altro da fare che occuparsi di lei. In apparenza sembra sicura di farcela da sola, ma d’improvviso cede, prima di partire per una vacanza in campeggio, temendo di essere stata definitivamente abbandonata dalla madre e di non poter contare in futuro sulla presenza del padre. La paura della solitudine l’attanaglia. “Somewhere” si conclude così com’è cominciato. Il protagonista, dopo aver lasciato l’albergo, monta sulla Ferrari nera, esce dal caos della città, arriva in una piccola strada e si ferma. Scende dalla macchina. Inizia a camminare. Intorno a lui non c’è niente. Il vuoto.
“Somewhere” è un film di pochissime parole. Il dialogo latita, i protagonisti hanno poco da dire. Immagini, suoni, rumori e musica dettano i tempi del racconto. Johnny ha un solo momento di sfinimento. Telefona alla moglie, le dice di sentirsi una nullità. «Datti al volontariato» è la secca risposta della donna. La conversazione ha termine. Dicevamo che “Somewhere” è lo specchio culturale del post-femminismo. Alla regista non interessa la lotta dei sessi, la supremazia di un genere. Sofia Coppola si tiene lontana dagli stereotipi del sistema simbolico binario di tagliare con l’accetta il bene dal male, il maschile dal femminile, il dominatore dal dominato. Rispetto alla figlia i due genitori hanno le stesse responsabilità: l’egoismo dei maschi è pari all’egoismo delle donne.
In apparenza il film potrebbe essere confuso con un attacco determinato al vuoto imposto dalla libertà e dalla liberazione, o con un pugno nello stomaco assestato al sistema alienante del mondo dello spettacolo. Ma sarebbe un grave fraintendimento del senso autentico del film. Johnny ha stampato sul volto il ritratto preciso della desocializzazione contemporanea, dominata dalla solitudine e dalla mancanza di senso esistenziale. L’universo dorato dello spettacolo si chiude dentro gli abitacoli delle Ferrari, delle suite a cinque stelle extra lusso, delle feste private in locali riservati. È un mondo ovattato, piatto, silenzioso e deprimente. I figli, sembra volerci suggerire il senso del film, hanno bisogno dei genitori, come i genitori hanno bisogno di loro. Tagliare questo legame è recidere alla base la convivenza sociale. Dove andrà Johnny abbandonata la protezione falsamente rassicurante della Ferrari e dello Chateau Marmont?
In mano ad altri registi (Tarantino ad esempio, che ha deciso di premiarlo come presidente della giuria a Venezia) il film avrebbe potuto assumere la fisionomia della perversione, della distruzione, della violenza. Sofia Coppola, come suo stile, preferisce i toni tenui, le tinte lievi. Non alza mai la voce, non va mai oltre il consentito. Ma la desolazione è comunque bruciante. A “Somewhere” manca la forza dello scontro con la realtà e lo spirito della redenzione (presenti invece in alcune opere di Clint Eastwood come “Mistic River” e “Gran Torino”). Sofia Coppola punta la macchina da presa sulle piaghe sociali del nostro tempo, l’egoismo e la solitudine su tutte, senza però incidere il bisturi sino in fondo. La sua è una pulizia superficiale della ferita, non un intervento riparatore. “Somewhere” plana sull’universo umano in disfacimento, adagiato al sole rassicurante della California, e galleggiante in acque in apparenza cristalline, ma solo in superficie, poiché il fondo è torbido e limaccioso. “Somewhere” posiziona le proprie antenne sull’indebolimento dell’etica.
Il cinema d’autore contemporaneo ha paura del lieto fine, della salvezza e della redenzione. Le considera materia da utilizzare solo in film volgarmente commerciali come “Mangia, prega, ama”: Julia Roberts è il ritratto della scemenza sentimentale. Ammesso (e non concesso) che lo sia, l’altra faccia della medaglia non è certo migliore. Alla chiarezza si preferisce l’ambiguità, all’armonia il vuoto. E proprio nel vuoto, nel nulla è destinato a perdersi Johnny.
Claudio Siniscalchi