127 Hours (127 Hours, Usa - Regno Unito - 2010, drammatico) di Danny Boyle con James Franco, Kate Mara, Lizzy Caplan, Amber Tamblyn, Clémence Poésy, Kate Burton, Darin Southam, Elizabeth Hales, Norman Lehnert.
L’alpinista Aron Ralston decide di fare un’escursione in un canyon dello Utah. Dopo aver aiutato e passato un po’ di ore assieme a due ragazze disperse nel canyon, finisce intrappolato: dopo una caduta, un macigno gli tiene imprigionato il braccio. Per cinque giorni il ragazzo deve riuscire a sopravvivere, fino ad arrivare ad una tragica decisione…
127 Hours lo si ama o lo si odia. Ma iniziamo dall’inizio. Il prologo del nuovo film di Danny Boyle la dice lunga: immagini velocissime e impazzite, immagini di metropoli e immagini con gente che corre (che caso!), split-screen e multi-screen, con la musica di A.R. Rahman che pulsa sopra ai colori accesissimi della fotografia.
Il collegamento con The Millionaire finisce qui, con le musiche del celebre compositore, ma entra in gioco un’altra fetta di filmografia del regista: che pare essere tornato alla cifra stilistica di una volta. Lo stile di 127 Hours richiama quella di film come Trainspotting, e forse addirittura più di tutti The Beach. Ma lì dove le esagerazioni, le intuizioni videoclippare e l’uso del grottesco finivano per risultare fuori luogo, in 127 Hours si sposano perfettamente alle intenzioni del racconto.
Un racconto che è sì di sopravvivenza, un racconto che vuole indagare sul rapporto di amore e odio tra l’uomo e la natura, ma che soprattutto si rivela essere l’attento ritratto di un ragazzo che sente vicinissima la sua ora e che ripensa alla sua vita. Alla famiglia, alle prime volte nel canyon, agli amori.
E per raccontare ciò che frulla nella testa di Aron per cinque giorni Boyle sceglie di non limitarsi in nulla a livello stilistico. E così 127 Hours diventa un’esplosione di accelerazioni, rallenti, split screen, scenette grottesche, soggettive assurde, inquadrature impossibili, momenti terrificanti, e chi più ne ha più ne metta. Il risultato è un film che rigetta la facile materia del dolore e della lacrima per provare la carta vincente dell’ironia per stemperare la tensione e dirci qualcosa di più sul suo (pazzoide) protagonista.
Ma non pensiate che il nuovo film di Boyle sia tutto stile e momenti comici, anzi. C’è dell’altro, molto di più. Ad iniziare dalla crudezza di molte scene, in primis quella attesa e temuta dell’amputazione del braccio da parte di Aron: è bene non svelare nulla, ma si tratta forse di una delle scene più impressionanti degli ultimi anni.
E poi c’è la prova di un immenso, straordinario James Franco. Davvero versatile, sia nei momenti più comici (osservatelo nella lunga gag dello “show televisivo”: irresistibile!) sia in quelli più disperati. Il giovane attore regge il film sulle spalle e si prepara a ricevere una meritata nomination agli Oscar. E chissà, forse anche a stringere la statuetta.