di Maria Rosaria Iovinella
Cadere sull’antisemitismo è un po’ morire. Vale per tutti e in particolare per i vip: si può sopravvivere a processi di ogni sorta, dai maltrattamenti agli schiamazzi in pubblico, ma sulla Shoah, giustamente, non può esserci comprensione. L’eclatante vicenda di John Galliano, lo stilista inglese licenziato da Dior dopo aver insultato in strada una coppia con epiteti antisemiti, segue tutti i tragici canoni di genere: il vip è nudo sotto l’effetto di alcool e simili, e rivela l’oscena propensione politica per la svastica e i metodi da campo di concentramento. Se «amare Hitler» è una follia, tuttavia siamo ancora nel campo della privatissima opinione. Ma gridare a una donna «sporca faccia di ebrea, dovresti essere morta» è reato, punibile fino a sei mesi di detenzione e 22.500 euro di multa.
L'ESILIO SOCIALE. Galliano comunque rischia molto di più. E non si tratta del contratto con Dior, già stracciato dalla proprietà di Bernard Arnault che, secondo i maligni, avrebbe approfittato dell’occasione per allontare uno stilista ormai inviso. L’ex proletario inglese che ha scalato i vertici della moda dovrebbe temere di più l’esilio dal consenso sociale: l’antisemitismo è uno stigma irrecuperabile.
Alcool, stress e antisemitismo
Lo stilista è in pessima compagnia di gente che ha meno estro di lui ma che insulta tirando in ballo, senza motivo, il popolo di Canaan, e si giustifica con l’alcool e lo stress. A meno che il motivo non sia l’antisemitismo e basta, che fa il paio col negazionismo e con gli eccessi da cattolicesimo integralista.
L'ESEMPIO (NEGATIVO) DI MEL GIBSON. Su tutti Mel Gibson, il regista dellaPassione, un film che, per molti, è apertamente razzista. Figlio di un negazionista, l’attore nel 2006 ha reagito all’arresto per guida in stato di ebbrezza, gridando all’agente: «ebrei fottuti!», «gli ebrei sono responsabili di tutte le guerre del mondo», «tu sei ebreo?», non senza sottolineare, prima, «sono il padrone di Malibù e spenderò tutto ciò che ho per regolare i conti con te».
L'OFFESA A WINONA RYDER. L’orgoglio precede la caduta, come è scritto anche sul Libro Proverbi (16: 18) e Gibson, profondo conoscitore della Bibbia, dovrebbe saperlo. Peggio di una caduta sul sentimento antiebraico c’è solo la caduta antisemita recidiva, che vale anche se retroattiva. Come confessato dall’attrice Winona Ryder a GQ a un party hollywoodiano, l’attore australiano, molti anni fa, l’ha apostrofata definendola «una scampata ai forni».
IN PRESTITO DALL'YIDDISH. Il pregiudizio antisemita travolge indistintamente l’arte, i rapporti umani, la gratitudine professionale. Parlare degli assenti non è mai bello, ma anche Michael Jackson rientra nel novero dei famosi che hanno peccato di antisemitismo. Nel 1995, anno della pubblicazione del disco HIStory: Past, Present and Future. Book I, il cantante fu al centro della bufera per aver usato, nella canzone They don’t care about us, la parola «kike» e non solo.
Cosa vuol dire? In dialetto yiddish la parola significa «cerchio», e gli ebrei semianalfabeti di origine orientale, arrivati in America, firmavano col cerchio, non sapendo scrivere. Jackson si profuse in scuse, pressato dalle potentissime Anti-Defamation League e dall’American Jewish Congress.
GLI EBREI E I MALI DEL MONDO. Peccato che nel 2005, uscendo dall’ennesimo processo, la popstar accusasse gli ebrei «di volerlo mettere sul lastrico». Uno stereotipo abusato che chiama in causa la peggiore libellistica di genere, quella che vuole gli ebrei al centro di tutti i mali del mondo, soprattutto quelli di natura economica.
La vicenda di Charlie Sheen, attore e figlio del più illustre Martin, invece, sembra suggerire che per fare affari assieme l’essere ebrei non è un grande problema. Tranne poi finire ai ferri corti con il suo agente e insultarlo con ripetute offese razziste, esternate in pubblico nelle interviste o scritte alla ex moglie con il più giovanile “messaggino”.
I luoghi comuni che si trasformano in diffamazione
Spesso, il confine dell’offesa si fa labile e si finisce nel campo dell’esegesi. Il leggendario Roger Waters dei Pink Floyd è stato accusato dall’Anti-Defamation League di antisemitismo in occasione dello spettacolo per il trentesimo anniversario di The Wall, servendosi dei catatonici luoghi comuni su ebrei e danaro.
BOMBE A STELLA DI DAVID. L’artista ha prontamente ribattuto all’accusa sostenendo che il suo intento era dimostrare che «il bombardamento, al quale noi tutti siamo sottoposti, di religioni in conflitto tra loro, ideologie politiche ed economiche non fa altro che incoraggiarci a rivoltarci gli uni contro gli altri». Ma qual è l’oggetto del contendere?
Nell’esecuzione di Goodbye blue sky, le retroproiezioni mostravano aerei che sganciavano bombe a forma di Stella di David. Prima di impattare al suolo, però, mutavano forma in quella di dollaro. Davvero sottile come metafora.
Mix politica-finanza-ebraismo
E in Italia? Da noi, finisce tutto in politica. Chiedere a Giuseppe Ciarrapico, che in Senato, accecato dal tradimento finiano, chiese pubblicamente: «I finiani hanno già ordinato la kippah? Perché di questo si tratta». Poteva sembrare incomprensibile, ma poi il senatore-editore fece una chiosa: «Chi ha tradito una volta, tradisce sempre».
L'EXPLOIT DI CIARRAPICO. L’antisemitismo di Ciarrapico, biasimato da più parti, sembra però infrangersi contro l’evidenza di chi in famiglia «ha l’albero dei giusti» e si mette la kippah quando va al Museo dell'Olocausto e «non per passeggiare». Non come Fini a Gerusalemme, sottinteso.
Il mix politica-finanza-ebraismo fa scivolare malamente anche lo storico direttore della Rai Ettore Bernabei che, nel maggio 2010, parlando di una Chiesa sotto attacco, sostenne: «C’è la volontà di paralizzare economicamente la Chiesa cattolica, che non ubbidisce alle lobby della finanza globalizzata.
STEREOTIPI ARCAICI ALL'ITALIANA. Era lo specchio dell’Italia dei primi anni ‘60, divenuta il quarto tra i sette Paesi più ricchi del mondo. Fu allora che, come avevano previsto Benelli e Fanfani, cominciò l’attacco della finanza protestante ed ebraica». All’estero si cade pesantemente sull’Olocausto, in Italia fanno in genere meno danni ma si inerpicano su stereotipi arcaici, ammantandoli però di una chiave critica.
Quello che colpisce, in molti casi, è il tentativo di difesa anche di amici e colleghi illustri: basterebbe rileggere Hannah Arendt per capire che il male colpisce in maniera banale, così come banale è rimestare pregiudizi logorati dal tempo e dalla storia.
CRITICA POLITICA PER ISRAELE. A meno di non credere che, in certi casi, siamo più dalle parti dello storico Norman Finkelstein, che all’abuso delle accuse di antisemitismo ha dedicato mirabili pagine nel libro Beyond Chupaz: sull’abuso dell’antisemitismo e sull’abuso della Storia. Ne dubitiamo: l’opera, complessiva, di Finkelstein, ebreo, è molto scettica sull’impossibilità di coniugare una critica sana alla politica di Israele senza passare, appunto, per antisemiti o osteggiatori di un difficile processo di pace che chiama in causa le responsabilità del Paese e gli appoggi politici e finanziari internazionali. Tutte cose forse troppo complesse per Galliano, Ciarrapico e compagnia.