Perché è una parola “usata come un bastone per far male alla gente”. E a lei, dopo il nono album, il quarto figlio, l’ennesima separazione, l’ultima terribile crisi depressiva, sono rimaste poche ma incrollabili certezze. Che Dio c’è, anche senza la religione. Che la musica dovrebbe servire “a fare accucciare il diavolo ai nostri piedi”. E che “segretamente ci amiamo tutti”. Anche se lo scopriremo troppo tardi
di Paola Maraone
Sul collo del piede, nudo, la scritta a pennarello nero è un magnete per lo sguardo: «Relax gently» (rilassati dolcemente), seguita da uno smile. «Sono molto timida, sa?», mi spiega a occhi bassi. «Sul palco, in concerto, mi capita di agitarmi. Allora mi concentro sui piedi. La scritta mi ricorda che devo stare tranquilla».
Nel tempo che trascorriamo assieme – 30 minuti o poco più, nella suite di un hotel di Manchester, una delle tappe del suo tour – Sinéad O’Connor fuma tre sigarette in barba all’allarme antincendio, trangugia due tazze enormi di caffè bollente (sono le sei di sera), pronuncia la parola fuck troppe volte perché io possa contarle («ma per noi irlandesi è come il punto e virgola»); parla di tutto, a raffica, ingovernabile, benché prima dell’intervista mi abbiano chiesto di «non fare domande personali». Anche se, o proprio perché, è stanca: promuove il suo nuovo, bellissimo album How about I be me (and you be you)? muovendosi con cautela. Rare le interviste, poche le date dal vivo (fra cui la prossima a Milano, il 24 aprile), Sinéad viaggia con il motore al minimo. Guardandola penso: è già tanto che sia qui a parlarmi dopo l’ultima crisi depressiva, sfociata l’11 gennaio scorso in un tentativo di suicidio. Crisi che nemmeno il matrimonio con Barry Herridge – per ironia della sorte, terapeuta di mestiere – è riuscito ad arginare. «Non sempre l’amore ci salva. Almeno questo l’ho imparato», ammette con una certa riluttanza. Il suo (che, due settimane dopo il nostro incontro, ha dichiarato «giunto al capolinea» su Internet), l’aveva trovato l’estate scorsa, grazie a un annuncio online in cui confessava «una pericolosa attrazione verso oggetti inanimati, tipo frutta o vegetali, e uomini inappropriati: è tempo di trovarmi un marito, un maschio dolce e desideroso di fare buon sesso, proprio come me». Senza filtri, romantica, ondivaga, autodistruttiva, una voce straordinaria maltrattata dal fumo, Sinéad entra ed esce dalle relazioni con la stessa disinvoltura con cui apre e chiude un profilo su Twitter: «Ma non chiedo mai a nessuno di seguirmi, perciò non ditemi che faccio di tutto per attirare l’attenzione».
Provocare, però, le piace. Il titolo del suo album suona come: «Che ne dite se io sono io e voi siete voi?».
Ah, quello? Vede, sono stufa che chiunque si senta in diritto di dirmi cosa devo fare, come devo essere, come devo comportarmi. Fondamentalmente volevo intitolarlo Fuck off, poi ho avuto la grazia di renderlo un po’ più dolce.
Si sente giudicata?
Da quando ho pubblicato il mio primo disco, nel 1990, tutti non fanno che trattarmi come una pazza, in un mondo in cui la parola «pazza» è usata come un bastone per far male alla gente.
Strappare la foto del Papa in diretta tv non ha aiutato la sua immagine.
Lo vede? Lei ricorda quell’episodio, che risale a vent’anni fa, ma non il suo significato. Fu un gesto clamoroso per denunciare gli abusi sessuali della Chiesa in un periodo in cui nessuno lo faceva. Il tempo mi ha dato ragione. E l’anno scorso mi hanno contattato dal Vaticano per chiedermi se volevo partecipare a un disco di preghiere di Giovanni Paolo II messe in musica: secondo loro era un modo per ricucire uno strappo.
Lei cos’ha risposto?
Che Dio c’era prima della religione, c’è oggi nonostante la religione e ci sarà dopo la fine della religione, a cui peraltro non manca molto. Non mi hanno fatto sapere più nulla.
Si dichiara antireligiosa, ma ha fede.
Tanta, da sempre. Il mio mito è lo Spirito Santo. Che si può chiamare anche Buddha, Gesù, Dio, Daisy, Fred: la cosa bella è che risponde alla voce umana, da qualunque direzione provenga. L’importante è non chiuderlo in un tabernacolo: dev’essere libero di volare, e atterrare dove vuole.
I suoi figli hanno preso da lei?
Soprattutto il terzogenito, otto anni, è un piccolo mistico. Per anni, quando tornavo a casa con un nuovo fidanzato, i miei bambini avevano il terrore di finire al secondo posto. Gli ho sempre ripetuto: «Amo voi più di qualunque altra cosa». Mio figlio, di recente, mi ha corretto: «Più di noi, dovresti amare Gesù».
Ha avuto quattro figli da quattro uomini diversi. Immagino un’organizzazione familiare un po’ complicata.
In effetti il giorno della festa del papà a casa mia è come se ci fosse una di quelle porte girevoli che permettono alla gente di entrare e uscire continuamente, come negli alberghi. Per il resto, non ce la caviamo peggio di tante famiglie cosiddette unite.
A Frank Bonadio, padre del suo ultimogenito, ha persino dedicato il suo disco.
Pensi che da tempo provo a convincerlo a farmi pubblicare il suo profilo sui siti di dating online, ma è troppo timido...
L’autrice delle canzoni dell’album è una donna innamorata. Addirittura, nel brano 4th and vine, una ragazza che si prepara al matrimonio.
E in Old lady cerco un uomo «che mi faccia ridere come un’idiota, senza essere troppo seria». Ho scritto quei pezzi un paio d’anni fa, ma sono innamorata anche adesso. Ricordo pochi momenti della mia vita in cui non lo sono stata. Sono irrimediabilmente romantica. E non sono pronta a rinunciare all’amore.
Non bisognerebbe mai esserlo.
Però quando tieni a qualcuno moltissimo, o troppo, l’amore diventa come un albero che niente riesce ad abbattere. Il che, le assicuro, può essere fastidioso.
D’altro canto la sua storia personale ci insegna che, nel campo delle relazioni sentimentali, nulla è eterno.
Il paradosso è che sono convinta che segretamente ci amiamo tutti. Ce ne renderemo conto quando moriremo, vedrà.
Le credo, ma in questa vita qualcuno che le sta sui calli c’è.
I preti, i politici. Ultimamente anche i miei colleghi musicisti.
Perché?
Nel mio orizzonte spirituale è previsto che i musicisti usino la loro arte «per curare le ferite dei malati», come dice il Libro di Geremia. Per esempio io, con la mia musica, spero di essere una piccola luce. Mentre mi pare che tanti miei colleghi, a questo aspetto, non pensino più.
Troppo distratti dal successo?
Definisca «successo». Per me il successo non è avere milioni di dollari, ma rispondere in modo affermativo alla domanda: «Riesco a essere me stessa?». È pensare che grazie alla mia voce potrei decidere in ogni momento di starmene per strada a cantare, e raccogliere abbastanza soldi per pagarmi le bollette da sola, senza restare sposata per forza a un uomo che controlla la mia vita.
Mi diceva, invece, della musica.
È forse l’unica arte che parla direttamente all’inconscio delle persone, saltando la parte consapevole. È un medium molto potente e inafferrabile: se ci fossero parole per descriverla, non avremmo bisogno di lei.
Smetterebbe mai di cantare?
Lei smetterebbe mai, volontariamente, di respirare? Quel che mi chiedo, semmai, è dove sia andato il fuoco, nella musica. Noi artisti conosciamo il suo potere. Perché non la usiamo più per cambiare davvero il mondo? Perché non cantiamo per convincere il diavolo ad accucciarsi, una buona volta e per sempre, ai nostri piedi?
BACKSTAGE
Sinéad ha un rapporto molto stretto con Internet: cura personalmente il sito (www.sineadoconnor.com). Sulla homepage c’è una sua foto, nuda, il corpo coperto solo da una chitarra acustica, e l’avviso: «Vietato ai minori di 18 anni». Una sezione del sito ospita le lettere aperte della cantante a Bob Dylan, suo idolo. La O’Connor entra ed esce di continuo da Twitter, che usa per perorare cause sociali come per parlare della sua vita privata. Dopo la separazione dal suo quarto marito, si è iscritta a un sito di annunci personali (www.plentyoffish.com).
Il suo disco è un ottovolante, hanno detto a proposito di How about I be me (and you be you)?. «Non sono d’accordo», spiega lei. «La parola ottovolante implica che ci siano alti e bassi e io di bassi, qui dentro, proprio non li trovo. Mi piace descriverlo come un album femminile, pieno di passione e compassione».
Il pezzo che l’ha portata al successo è la cover di Nothing compares 2 U, composta da Prince, che lei ha reso più popolare dell’originale. Le chiedo se non si senta mai intrappolata: «Ci sono canzoni con cui, in effetti, non riesco più a identificarmi. Ma Nothing compares 2 U non è tra queste».