«Quando l’uomo libero pensa alla morte, la sua è una meditazione sulla vita»

"Il suicidio e l’anima" di James Hillman
Da sempre condannato dalla civiltà occidentale, al contrario di quella orientale (si pensi solo alla ritualità e alla sacralità del “seppuku” nella cultura giapponese), il suicidio, il rinnegamento della vita con un atto volontario, continua a essere considerato un tabù da circoscrivere e da stigmatizzare quale atto deviante,
provocato fondamentalmente da un’instabilità psichica che obbliga il suo autore a rompere con la realtà esterna, per mettere fine alla sua sfera reale. Perfino la stessa scienza psicologica, perfino la psicoanalisi hanno affrontato raramente quest’argomento, che vanta di conseguenza una letteratura specialistica in materia nettamente inferiore rispetto ad altri campi d’investigazione e di studio. Per parlarne apertamente, per affrontarlo lucidamente, ci voleva uno studioso, un analista, un filosofo dell’inconscio qual è lo statunitense James Hillman, autore di un breve e densissimo saggio, dal titolo “Il suicidio e l’anima”, pubblicato nel lontano 1964 e ora presentato per la seconda volta al pubblico italiano dalla casa editrice Adelphi (dopo essere apparso nel 1972 per i tipi dell’Astrolabio-Ubaldini Editore).
Hillman, uno dei più interessanti esponenti della psicologia analitica junghiana, nei suoi testi (molti dei quali pubblicati in Italia proprio dall’Adelphi) dimostra di avere la rara capacità di giungere direttamente e drammaticamente al punto della questione, come nel caso del suicidio, affrontato in relazione con chi lo vuole usare per giungere al termine della sua esistenza e con chi, invece, lo affronta dal di fuori, oggettivamente, ossia l’analista che prende in esame il paziente alle prese investito da tali istinti suicidi. Il libro, al quale lo stesso Hillman ha aggiunto nella nuova versione un postscriptum, è suddiviso in due parti, la prima che mette in evidenza il rapporto tra suicidio e analisi, e la seconda (maggiormente indicata per gli “addetti ai lavori”), su come l’analisi può intervenire sull’istanza del suicidio e di chi lo vuole commettere.
L’assunto dal quale parte Hillman è che se esiste l’idea della morte, quale elemento irrinunciabile nella vita di ogni uomo, allo stesso tempo non si capisce perché con l’idea della morte non possa essere presa in considerazione anche quella del suicidio, che contempla esemplarmente la veicolazione della morte attraverso strutture, analisi, decisioni che prevedono il ruolo di assoluto protagonista in chi lo vuole compiere. Un punto di vista che può essere associato all’enunciazione con la quale Albert Camus, iniziò il suo celeberrimo “Mito di Sisifo”: «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio, quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto - se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie - viene dopo. Questi sono giochi: prima bisogna rispondere», che Hillman mette in calce proprio quale epigrafe nel suo studio.
Accettare l’idea della morte, quindi, significa accettare anche l’ipotesi del suicidio, come afferma Hillman alla fine della prima parte del suo libro: «L’esperienza della morte è necessaria, vie di uscita non ce ne sono, né mediche né simboliche. Le spesse mura difensive innalzate contro la morte attestano la sua potenza, e del nostro bisogno. Come la religione, come l’amore, come la sessualità, la fame, l’istinto di autoconservazione, e come la paura stessa, la tensione verso la morte è tensione verso la verità fondamentale della vita. Se alcuni chiamano Dio questa verità, allora la tensione verso la morte è anche tensione verso l’incontro con Dio, che per taluni teologi è reso possibile soltanto dalla morte. Il suicidio, tabù per la teologia, chiede con forza che Dio si riveli».
Parole forti, che fanno intravvedere, ancora una volta, uno degli argomenti maggiormente cari all’analista e filosofo americano, quello dell’anima, come d’altronde si evince dallo stesso titolo di questo libro. Hillman ci fa capire come cercare di accettare l’idea del suicidio in fondo sia un altro, ennesimo modo per arrivare fino all’anima, svincolata, naturalmente, da ogni acquisizione e interpretazione di ambito teologico, religioso e spirituale. «L’anima è un concetto volutamente ambiguo, che resiste a ogni tentativo di definizione, così come fanno tutti quei simboli primi che forniscono le metafore radicali dei sistemi di pensiero dell’umanità», ammonisce Hillman in un passaggio del libro. Conoscere ciò che noi intendiamo quale anima, i suoi meccanismi, i suoi processi, diventa indispensabile per andare incontro a chi vuole concedersi al suicidio. Perché, come ci ricorda continuamente Spinoza, «quando l’uomo libero pensa alla morte, la sua è una meditazione sulla vita».
James Hillman “Il suicidio e l’anima”, Adelphi, pp. 316, euro 15,00